et en plus une bonne critique, qui donne envie de lire!
http://shangols.canalblog.com/archives/2010/08/19/18849277.html
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La città è un buco e suoi abitanti respirano. La città è un buco e vi si respira dentro. I suoi vicini sono dentro, sono nel buco. I suoi vicini, i suoi abitanti uomini e donne, tutti vi respirano, tutte le persone dentro, nel buco. La città è un buco e le persone che leggono, leggono tutti. Tutti vorrebbero leggere. Tutti lo vogliono, tutti a un certo punto desiderano. Tutti desidererebbero parlare. La città è un buco, tutti al suo interno. Tutti i vicini con il giornale. Il giornale è un buco, poiché il buco è là tutti i giorni. É nella città. La città è un buco, la città respira, i suoi vicini pronunciano delle parole. Gli piacerebbe parlare. I vicini parlano, hanno voglia di fare conversazione, di creare dei legami. Tutta la città è un buco ha legami. Tutta la città è un buco. Il legame forma il mondo. Il mondo è aggregante, è un collante, è una salsa. Il buco funziona. I giornali sono stampati il giorno prima. I giornali sono per il giorno dopo, o per il giorno stesso. Il giorno stesso è un buco. Il giorno prima del giorno dopo. Tutto è un buco. Ma la città è un buco. E i suoi vicini ci dormono dentro. I suoi vicini sognano. Sognano di cascare, sognano di cadere, ma non si fanno troppo male. Si rialzano. La città è un buco. Le persone si rialzano. Si svegliano. Sono nel buco, ma va tutto bene, il giornale è stampato il giorno prima per il giorno dopo. Nel mezzo c'è il quotidiano. Fra i due, i vicini hanno la scelta, possono dormire o cadere. E quando dormono, cadono sempre. La città è un buco dove cadere.
La città è con i suoi abitanti e respira. É tutto dentro. Respira. É un buco, è un buco che c'è in tutti gli abitanti. Vogliono tutti parlare. Vogliono tutti avere un linguaggio. Vengono a comprare il giornale. Il giornale è un buco per gli abitanti delle città. La città è un buco. Il buco funziona. I vicini continuano a dormire. I vicini hanno comprato una macchina. O è un motorino. O è un camper. Vanno nella loro “tenutina”. Il loro buchino fuori città. Ma la città è un buco. Ci vanno col camper, hanno comprato anche una moto. Distruggono gli alberi. Non gli piacciono gli alberi con i frutti dentro. Gli alberi con i fiori. Non gli piace tutto ciò. Gli piace il prato. Hanno un bel prato pulito e sorridono mettendo le mani sulle anche.
La città è un buco. I vicini hanno messo le mani sulle anche. I vicini hanno messo il linoleum. I vicini hanno messo le lastre. I vicini hanno i doppi vetri. E poi hanno fatto dei buchi. Hanno messo dei buchi dappertutto. E poi un giorno il vicino si rompe il muso. E in città si sa cosa vuol dire, lo si legge sui giornali. Si legge che un vicino si è rotto il muso. Vuol dire che era in moto in città, è arrivato in centro. La città è un buco ed è scivolato. Lo si legge sui giornali. O altrove. Lo si legge in città, o altrove sui giornali. O allora, lo si legge altrove. Non sui giornali, ma altrove. I giornali sono un buco, idem gli abitanti, idem il loro pensiero. E anche altrove. Altrove è un buco. Hanno un unico pensiero. É il pensiero degli abitanti del buco, di qualsiasi buco. Il buco di un altrove o il buco di qui. Hanno un unico pensiero, e vi si puliscono dentro. Un giorno, il vicino è scivolato con la moto, o forse è sua figlia. Monta, la figlia sulla moto. É una bambina piccola. E per scherzare la monta sulla moto, e mette in moto, per scherzare. E la moto la schiaccia. É così in città. Perché la città un buco, e i suoi abitanti sono dentro. E si scherza. Ed è così.
un giorno
mio padre posa la borsa contro la porta
un giorno
esce tutte le mattine per lavorare
un giorno
prende l'autobus per denain
un giorno
riporta caramelle dalla fabbrica
un giorno
tira la lattina sotto la tavola
un giorno
mi vede sulla staccionata
un giorno
mia zia lo prende per il culo
un giorno
riporta solo il vino dalla spesa
un giorno
lo vedo in fondo alla strada nuova
un giorno
mia madre nasconde le bottiglie
un giorno
mia sorella dice che è gentile
un giorno
mia madre lo serve fino all'orlo
un giorno
accarezza il gatto in poltrona
un giorno
batte su dei bidoni
un giorno
mette un posacenere sotto il bicchiere
un giorno
civetta non lo fare
un giorno
dice cose complicate
un giorno
mette il carbone nella caldaia
un giorno
sale le scale
un giorno
mi compra dei dizionari
un giorno
riprende la discussione
un giorno
taglia la corda durante un matrimonio
un giorno
mi tiene uno sproloquio sulla vitamina a, b, c, d
un giorno
prova il suo patois con un vicino
un giorno
allontano la sua mano in macchina
un giorno
si dà da fare con le bobine di spago
un giorno
dissotterra la bambola di mia sorella
gli dico sì sì sì sì
un giorno
sua madre l'addormenta con le sue storie
un giorno
ci mette un sacco di tempo
un giorno
si lava col guanto da bagno
un giorno
è vestito di blu con il berretto e apre la bocca
un giorno
riacciuffa la goccia al naso con la mano
un giorno
ha le vene sul viso
un giorno
lubrifica di nuovo il fucile
un giorno
mi parla di mia madre
un giorno
scappa da zia marthe
un giorno
riporta le mele nella carriola
un giorno
incrocia le mani sulla pancia
un giorno
torna tutti i giorni sbronzo
un giorno
dice non ho carne
un giorno
mi fa delle smorfie
un giorno
corregge gli errori di francese
un giorno
non smette di tacere
un giorno
mette le cose ultra lentamente
un giorno
recita un poema di Maurice Fombeure
un giorno
resta nel mezzo davanti alla TV
un giorno
il gatto è sulle sua ginocchia
un giorno
piega le gambe nella 4CV
un giorno
guardo l'uomo che si ritira
un giorno
si fa graffiare dalla mamma
un giorno
trafigge il cuore del ragno con uno spillone
un giorno
fuma una sigaretta e pensa
un giorno
c'è odore di piselli spezzati
un giorno
dice non toccare rompi tutto
un giorno
le scale scricchiolano in continuazione
un giorno
la mamma dice ancora ho già salato
un giorno
vedo la terra da vicino
un giorno
è sfocato dietro la biancheria
un giorno
incrocia le gambe in cucina
un giorno
lo zio è rauco
un giorno
vedo l'ombra del vicino
un giorno
mio padre gira intorno alle mele
un giorno
mio fratello scappa dagli spogliatoi
un giorno
Traduction en italien Barbara Puggelli
TROIS BALLES DANS LE TEXTE
SERVITUDE VOLONTAIRE VS. MEDITATION POETIQUE
Rien d’étonnant si Pas de tombeau pour Mesrine[1] commence par s’en prendre à la censure éditoriale, à l’incommensurable médiocrité romancière qui correspond à la commande des éditeurs, et s’il en donne d’emblée la raison sociale, l’asservissement volontaire : ce livre découvre une autre façon d’écrire et qui plus est une autre façon d’écrire une « biographie » ! Car son style est singulier, méditatif et poétique à la fois, alors qu’il se devait de raconter une vie en guise de tombeau…
Soit donc cette commande : écrire la vie romancée de celui qui fut l’ennemi public numéro, Jacques Mesrine. Et la résistance de l’écrivain Charles Pennequin « à l’incursion cursive dans le roman pour trous-du-cul ». Pourquoi cette résistance ? Parce qu’il s’agit d’inventer une fiction, pas de prolonger une hallucination. Que la figure médiatique de Mesrine ait été celle d’un assassin, d’un bandit de grand chemin ou d’un martyre, l’enjeu n’est pas là : ces trois figures plus ou moins combinées relèvent de l’imaginaire romanesque dont la fonction sociale est de marchander le spectacle par la projection narcissique – on sait l’affligeante domination de la dite « autofiction » dans la production française actuelle. L’enjeu apparaît dès lors : ne pas servir le spectacle, et s’élargit : résister à l’asservissement généralisé. Car le sujet réel du livre est là : dans la question posée à la mort spectaculaire de Jacques Mesrine, au tombeau introuvable du fait de cette spectacularisation et, au bout du conte noir, à l’asservissement spécifique auquel elle a donné lieu.
D’où vient la servitude volontaire à l’époque où nous ne sommes plus censés croire en l’Un, tels les contemporains de La Boétie subjugués par le Roi, puisqu’après tout nous sommes des contemporains de la démocratie représentative ? Question que l’écrivain transcrit : D’où vient « l’étouffement généralisé » que manifeste la vie et la mort, fascinées autant que fascinantes, d’un truand ? Et la réponse, méditée et poétique, apparaît double : de l’époque et de la mort – « sa vraie tombe elle est dans l’époque »…
Notre époque, en effet, est « une sorte de couvercle (…) une mise en bière de toute époque un peu révolutionnaire, car notre époque est une époque de pensées révolues, nous sommes des révolus je me dis en marchant dans les allées du cimetière ». Or Mesrine a catalysé cette époque de façon redoublée : se révoltant contre « l’instinct de mort » (c’est le titre de son livre d’un journalisme des plus médiocres) et y cédant dans sa révolte même, par l’assassinat. Nul doute qu’il cherchait à s’évader de mille et une façons, de la prison comme de l’époque, refusant la passivité, l’attente, l’étouffement. Et cela explique la fascination dont il a fait l’objet : « premier de la classe morte de ceux qui ont l’instinct de vivre, il y avait qui sinon personne (…) il n’y avait que l’individu Mesrine face à cinquante millions de consommateurs, il y avait le Un de Mesrine face à tous ces numéros, et le numéro du président de la République ». Autrement dit, dans cette représentation imaginaire de Mesrine-Pennequin, la démocratie consumériste produit un anti-Un qui reste prisonnier de l’asservissement à l’Un : « il y avait le Un tout seul de Mesrine, face à la force, à toutes les forces » !
Parce qu’il ne sert à rien de se leurrer : dans le sursaut aveugle de vivre, Mesrine a cédé lui-même à l’époque, à l’idée d’une fin du « moderne » préparant le pire « post-moderne ». « Animal poético-médiatique, il faisait son numéro spectaculaire », jouant le jeu journalistique et torturant un journaliste, du même coup cédant à la mort, au fond de tout asservissement. Voilà pouquoi, « si Mesrine était là et qu’il se présentait aux élections présidentielles, il dirait peut-être ça, ne votez pas, mais butez-vous tant qu’il est encore temps, et sortez-vous du tas de votants ». Ce qui témoigne de sa souffrance, certes, mais celle de « l’homme démuni de lui-même, démuni de sa propre histoire, l’homme qui vit au temps de surveiller et punir ». Et qui ne survit que par la mort : « lui ce qu’il voulait c’est vivre, il voulait vivre et se venger de ce qu’on avait gangrené en lui ». La vengeance tue sans action, qui n’a lieu qu’avec les autres pour un autre commencement, sans même un faire poétique, qui n’a lieu que dans les langues des autres : « Mesrine faisait de l’éthique à deux balles, c’est une sorte de poète, mais à deux balles, c’est un poète avec des barillets »…
En travers de cette fiction, l’écrivain Charles Pennequin nous aura effectivement forcé à dévisager notre propre asservissement. Le texte qui clôt le livre l’écrit en caractères gras : « Ça pue la ressemblance la France. La remouvance. Recouvrance de l’Etat. C’est l’Etat France. Ça pue l’Etat car la France ça rassemble. La ressemblance rassemble. C’est le ramassement de tout qui pue parce que ça s’oublie. » En travers du « pas de tombeau », cette fiction poétique médite sur la chance du « pas de mort » dans la vie, la sortie tenace mais lucide de l’asservissement dans le semblant. « Dans tout corps qui pue une idée qui est comme un bouchon. Et qu’il faudra faire sortir. » Pour gagner au dedans la pensée du dehors : « Toute la respiration du dehors. Tout le respirant qui pourrait faire que ça pense dedans… »
Eric Clémens
[1] Editions al dante, 2008, 87p.